Sgusciando fave sulla porta di casa
Come i romantici dell’Ottocento che viaggiavano nell’Italia meridionale inseguendo le macerie dei templi crollati, lungo la via per Oriolo ci fermiamo presso un luogo misterioso, al quale ci conduce un amico. Desolazione e meraviglia: tra i rovi e i profumi della mentuccia sorge il cascinale di campagna del principe Alessandro Pignone del Carretto, signore di Oriolo e gran ciambellano del re di Napoli. Calcinacci a terra, crepe profonde nei muri, ragni nelle stanze desolate: eppure in questa sontuosa residenza si entrava, fino a una cinquantina d’anni fa, aprendo le porte del Palazzo Reale di Napoli, trasferite qui dal gran ciambellano. La fotografa dispone la macchina tra le macerie, come colpita da un sortilegio. Cosa ci attira nelle stanze vuote? Forse, la latitudine incerta del corpo nello spazio tra bellezza e rovina.
Bisogna venire a Oriolo per capire la Calabria. Non solo perché la sua storia è la stessa della Calabria, dalla Magna Grecia ai briganti. Ma anche perché le case sventrate, i vecchi palazzi devastati dal tempo, il senso di abbandono e di chiuso che avvolge le venerande reliquie del passato, disegnano una «estetica» – se possiamo chiamarla così – che è costitutiva di questa regione. Un’estetica delle rovine. Sembra quasi, suggerisce Vito Teti nel suo libro Il senso dei luoghi, che i calabresi abbiano una particolare «percezione» delle rovine e del non-finito, che invece fanno indignare i popoli settentrionali. Allora, scrive Teti, bisogna «rintracciare, cogliere, interrogare i segni della vita e della memoria non già nei luoghi abitati e vissuti, pieni di gente, di oggetti, di palazzi e di macchine, ma in maniera paradossale proprio là dove i luoghi sembrano finiti, la vita cessata».
Oriolo, alle falde di una montagna – il Pollino – che scende lentamente al mare, è una crepa che si allarga, ma in qualche modo riesce a non mollare la presa intorno al suo castello, oggetto di un recente restauro. Salendo a piedi dalla chiesetta della Madonna della Virtù, il borgo appare intatto nella sua struttura, ma ha bisogno di essere salvato dall’abbandono. Sgusciando fave sulla porta di casa, un’anziana ci guarda salire al castello, il cui aspetto attuale è di epoca aragonese, a pianta quadrangolare. Oriolo fu marchesato dei Pignone del Carretto: il loro stemma con le cinque pigne sovrasta l’ingresso della fortezza, eretta prima del 1221, anno in cui – riportano le cronache – è già un possedimento di Federico II di Svevia.
Le origini del luogo sono molto più antiche, se è vero che il kàstron Ourtzoulon, in posizione dominante sul fiume Ferro, era una delle venticinque città che la potente Sibari teneva sotto di sé, all’apice del suo splendore. Il fiume, chiamato Akalandro dai Greci, segnava il confine tra i territori di Sibari e di Siri, quindi andava presidiato. Caduta Sibari, Oriolo subì un lungo periodo di decadenza fino all’alba del Mille, quando tornò ad avere un ruolo come baluardo contro le incursioni dei Saraceni. Il castello divenne rifugio fino a tutto il Seicento per le popolazioni costiere terrorizzate dai pirati: resta nella storia la devastazione portata nel 902 da Ibrahim Ibn Ahmed, il condottiero musulmano che praticava la guerra santa contro gli infedeli. Le torri d’avvistamento costruite sulle rive dell’Alto Jonio, come quelle di Albidona e Villapiana, avevano lo scopo di segnalare l’arrivo dei Saraceni.
Oriolo ha un impianto urbanistico seicentesco: i palazzi nobiliari si affacciano sulla strada principale, che attraversa l’intero abitato e collega la residenza del feudatario con le mura di cinta quattrocentesche, ridotte a ruderi. Di fronte al castello sorge la chiesa madre dedicata a San Giorgio, di origine normanna, come mostrano i due leoni posti a guardia della porta centrale, risalenti al 1264. All’interno, sono da vedere la statua lignea della Madonna con Bambino, quattrocentesca, e il monumentale altare ligneo barocco.

Dove mangiare
Locanda ’Nda Terr
Via Vittorio Emanuele
Tel: +39.0981.930053
Il regno del baccalà, cucinato in tutti i modi: con patate e peperoni, in salsa sfoglia, a insaporire i ravioli. Il mare Jonio entra nei piatti con le alici in pastella, le cozze gratinate al pistacchio, il pesce spada che riempie rotoli di melanzane.

Dove dormire
Antico Casale
Contrada Santa Marina 7
Tel: +39.0981.93000
Azienda agrituristica biologica a conduzione familiare, a pochi minuti dal Parco Nazionale del Pollino e dalla costa jonica. In cucina trovano raffinato impiego i prodotti di provenienza aziendale o locale, declinati in piatti legati alla cultura gastronomica dell’Alto Jonio.